Sale, acidità e umami: il seasoning nei cocktail che non ti aspetti

Sale, acidità e umami

In cucina, condire è un gesto naturale. Un po’ di sale, una spruzzata di limone, magari qualche goccia di salsa di soia per arrotondare. Lo facciamo senza pensarci troppo, guidati dall’istinto e dal gusto. Ma dietro al bancone di un bar? Il concetto di seasoning – cioè l’aggiunta calibrata di elementi come sale, acidi o componenti umami – è ancora visto come qualcosa di insolito. Eppure, è proprio lì che sta succedendo qualcosa di interessante.

Sempre più bartender stanno riscoprendo l’arte di “condire” un cocktail, non solo per bilanciare sapori, ma per aggiungere profondità, complessità e un tocco personale. Perché un buon drink oggi non si accontenta di essere solo buono: vuole sorprendere, incuriosire, restare impresso.

Un pizzico di sale, letteralmente

Sì, hai letto bene. Il sale nei cocktail non si limita al bordo glassato del Margarita. Anzi, lì ormai è quasi banale. Il vero colpo di scena è quando il sale entra nel drink, anche se in quantità minuscole. Parliamo di dosaggi che vanno dallo 0,25% allo 0,7% del peso del cocktail – praticamente impercettibili alla vista e quasi al gusto, ma capaci di cambiare tutto.

Il sale ha il potere di accentuare i sapori positivi, attenuare quelli amari e migliorare la percezione generale degli aromi. È come un amplificatore silenzioso.
Il preferito? Il sale marino in fiocchi, delicato e facile da dosare. Ma c’è chi osa di più: saline fatte in casa, sale affumicato, oppure infusioni salate a base di bacon, salsa di pesce, pasta di gamberi o ostriche.

Nel Bloody Mary, ad esempio, un pizzico di sale integrato nel mix può fare la differenza tra un drink piatto e uno che ti fa dire “wow”. Ma anche nei twist su Martini, Paloma o sour tropicali, la sapidità giusta può dare quel tocco inaspettato e indimenticabile.

Acidi: la spinta che accende tutto

L’acidità è ciò che dà freschezza, pulizia, contrasto. Una componente fondamentale per bilanciare dolcezze, alcol e sapori intensi. Tradizionalmente si lavora con limone o lime – che però stanno diventando sempre più costosi e meno sostenibili.

Per questo molti bartender stanno esplorando nuove vie: mele verdi, rabarbaro, frutti rossi, uva, kiwi. Anche i pomodori, incredibilmente, contengono acido citrico. Ogni frutto o ortaggio ha una sua acidità specifica: malico per le mele e l’uva, tartarico per i frutti più aspri, citrici per gli agrumi e i pomodori. Lavorare con questa varietà permette di personalizzare il profilo acido di un drink in modo più fine e interessante.

Per chi vuole precisione (e un po’ di nerdismo), esistono acidi in polvere da dosare al milligrammo: citrico, malico, tartarico, fosforico. Basta un bilancino, qualche test con le cartine al pH o un misuratore digitale e il gioco si fa serio.

Ideale per creare cordiali su misura, sherbet, o per replicare la brillantezza dell’acido di un lime… senza lime.

Umami: il gusto che non sapevi di cercare

E poi c’è lui, l’umami. Il gusto dimenticato, ma fondamentale. Quel sapore che non è né salato né dolce, ma pieno, rotondo, “brodoso”, avvolgente. Lo trovi nel parmigiano ben stagionato, nei funghi secchi, nella salsa di soia, nelle alghe, nei pomodori maturi. È quel qualcosa che fa dire: “Mmmh, che buono” anche quando non sai bene perché.

L’umami nei cocktail è una frontiera relativamente nuova, ma promettente. A livello chimico, è dato dalla presenza di glutammato monosodico (MSG) e da altri composti simili come inosinati e guanilati. Il MSG, se dosato con cura, può essere usato anche nella miscelazione per esaltare note salate o rafforzare il corpo di un drink.

Qualche esempio?
Qualche goccia di salsa di soia affumicata in un Old Fashioned al caffè. Un brodo di funghi essiccati filtrato e ridotto per dare struttura a un sour. Una soluzione salina al miso che rende un Martini più complesso, quasi da degustazione. Con l’umami si gioca con la sensazione di “mangiare” un drink, di renderlo più tridimensionale, quasi gastronomico.

Perché sperimentare col seasoning?

Perché il mondo del cocktail sta cambiando. L’era della spettacolarità fine a sé stessa sta lasciando il passo a una miscelazione più sensoriale, profonda, personale.
Oggi non basta che un drink sia bello: deve raccontare qualcosa, lasciare una sensazione duratura, farsi ricordare.

Il seasoning è un’arma in più per chi vuole distinguersi. È un modo per firmare i propri cocktail con una sfumatura unica, lavorare sulla struttura più che sull’estetica, sorprendere senza dover inventare qualcosa di totalmente nuovo.

E poi diciamocelo: se la cucina da anni parla di umami, acido e sapido, perché il bar dovrebbe restare indietro? Il confine tra shaker e fornelli è sempre più sottile, e forse è proprio lì – in quel terreno di mezzo – che nascono i drink più interessanti. Quelli che ti fanno alzare un sopracciglio, poi sorridere, e infine ordinare il secondo.

Vuoi un consiglio?
La prossima volta che prepari un cocktail – anche uno semplice, fatto in casa – prova ad aggiungere una goccia di soluzione salina, un twist acido diverso dal solito, o una nota umami ben calibrata. Magari non lo noterai subito, ma il tuo palato sì. E non vorrà più tornare indietro.

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