Albert Einstein non avrebbe mai scelto un vino per seguire una moda o per fare colpo.
Il suo calice ideale sarebbe stato il risultato di un ragionamento, un’intuizione, magari anche una piccola rivoluzione personale. Un vino essenziale, senza fronzoli, ma con un’anima profonda e, sotto sotto, un pizzico di follia ben calibrata. Qualcosa che tiene insieme l’ordine e il disordine, come le sue teorie: rigorose nella struttura, ma capaci di aprire porte a universi inattesi.
Il vino del pensiero fluttuante
Einstein amava la semplicità, ma era attratto dalla complessità. Era capace di contemplare il mistero dell’universo e di perdercisi dentro con leggerezza. Il suo vino avrebbe avuto proprio quella qualità: pulito all’apparenza, ma stratificato dentro.
Potrebbe essere un Sylvaner dell’Alto Adige: un vino preciso, minerale, essenziale. Ma appena lo assaggi, capisci che dietro la sua linearità c’è profondità, equilibrio, coerenza interna. Come un’equazione elegante che funziona con poche variabili ma ti cambia la visione del mondo.
O magari un Chenin Blanc della Loira, capace di passare con grazia da versioni secche ad altre più morbide, da gioventù spensierata a maturità complessa. Un vino che attraversa stili, temperature, epoche. Un po’ come le idee di Einstein: teoriche, ma sempre con un risvolto pratico. Capaci di evolversi nel tempo, restando sempre attuali.
E poi c’è il Soave Classico da Garganega. All’apparenza semplice, quotidiano, perfino sottovalutato. Ma dentro ha una geometria nascosta, una struttura che tiene insieme eleganza e profondità. Come lo spazio-tempo: che sembra piatto, ma curva quando lo guardi da vicino.
Niente fronzoli, ma tutto significato
Einstein avrebbe diffidato dei vini troppo “perfetti”, troppo cesellati, troppo studiati a tavolino. Il suo calice sarebbe arrivato da un vignaiolo che lavora con la terra, con l’istinto, con la testa e con le mani. Uno che studia il terroir come si studia una costante universale, non uno che studia il target di mercato.
La sua cantina ideale sarebbe stata piccola, ma curata. Poche bottiglie scelte con criterio. Etichette sobrie, magari in bianco e nero. Ma con dentro un contenuto che si apre come una formula matematica scritta in versi. Un vino che non si impone, ma che quando lo bevi… ci arrivi.
E se fosse rosso?
Einstein aveva luce negli occhi e disordine nei capelli. Un rosso per lui non poteva che essere un Nebbiolo delle Alpi Retiche. Filante, austero, cerebrale. Ma capace di stupirti con lampi di frutta, di sole, di aria di montagna. Un vino che ti costringe a pensare, ma che ti premia con emozioni sottili e nitide. Un rosso che cammina sulla lama del rasoio, tra intelletto e istinto.
Cosa gli serviremmo a 7pm.fun?
Un Chenin Blanc di Nicolas Joly, anarchico e biodinamico, ma con un ordine cosmico perfettamente incastonato in ogni sorso. Un vino che sembra nato dal Big Bang, ma con dentro un disegno intelligente.
O un Sylvaner di Kuenhof, altoatesino, rigoroso, fatto con mano da fisico della materia. Preciso come un esperimento ben riuscito, ma con un finale poetico.
E per i momenti in cui Einstein smetteva di pensare e tornava solo uomo, un Grüner Veltliner austriaco: secco, diretto, con note verdi e un retrogusto che sa di mela fresca e di teoria quantistica.
Einstein avrebbe scelto un vino che non ha bisogno di essere spiegato.
Ma che può reggere ogni domanda. Ogni assaggio sarebbe stato un piccolo enigma, una rivelazione, un’onda che piega lo spazio e il tempo. Un vino che non si lascia afferrare del tutto, ma che – se ti ci perdi – ti riporta sempre a casa.