“Naturale” è una parola che evoca buone vibrazioni: campi in fiore, trattori in legno, ceste piene d’uva raccolta a mano tra risate e canti popolari. Nell’immaginario collettivo, è tutto un ritorno alla terra, all’autenticità, alla semplicità. Ma quando si parla di vino naturale, le cose si complicano. E non poco.
In questa puntata de Il vino spiegato bene, proviamo a capire cosa c’è dietro questa etichetta così affascinante — e perché non sempre naturale fa rima con buono.
Ok, partiamo: che significa “vino naturale”?
Spoiler: non esiste una definizione ufficiale e univoca. Nessuna legge, nessun disciplinare universale. Ma nel gergo comune, per vino naturale si intende generalmente un vino che rispetta alcune pratiche chiave:
- È prodotto da uve coltivate in biologico o biodinamico, quindi senza l’uso di pesticidi, erbicidi o fertilizzanti di sintesi.
- Fermenta con lieviti indigeni, cioè quelli già presenti sulle bucce dell’uva o nell’ambiente della cantina — non con lieviti selezionati e comprati.
- Non subisce manipolazioni chimiche: niente correzioni di acidità, niente enzimi, niente aromi aggiunti.
- Contiene pochissimi o nessun solfito aggiunto (la famosa “solforosa”), un conservante usato per stabilizzare il vino.
In pratica, è un vino che cerca di essere il più vicino possibile alla natura, senza interventi pesanti, nel vigneto come in cantina.
Quindi è sempre meglio?
Ecco il punto critico: no, non necessariamente. Un vino naturale può essere una meraviglia assoluta o una catastrofe liquida. Dipende tutto da chi lo fa, da come lo fa e da quanto è attento in ogni fase della produzione.
Il rischio è che, in nome della “naturalità”, si accettino come “carattere” dei difetti tecnici veri e propri.
Parliamo di:
- Brettanomyces: quel profumo di stalla, sudore o cuoio bagnato che può piacere… o disgustare.
- Acidità volatile elevata: il vino sa di aceto? Non è un tocco artistico. È un problema.
- Ossidazione spinta: se sa di mela marcia o noci andate a male, qualcosa è andato storto.
C’è chi li gestisce con maestria e riesce a creare vini vibranti, vivi, complessi. E poi ci sono i disastri mascherati da poesia.
Come lo riconosco al volo?
Ci sono alcuni segnali che ti aiutano a intuire che hai davanti un vino naturale:
- Aspetto torbido, con sedimenti sul fondo (non sempre, ma spesso);
- Profumi insoliti: non necessariamente fruttati o floreali, ma a volte “selvatici”, “funky”, non convenzionali;
- Texture più rustica, meno levigata, con asprezze e spigolosità che possono essere affascinanti — o fastidiose.
Attenzione, però: non esiste una regola fissa. Un vino perfettamente pulito, limpido, elegante, può essere naturale. Così come un vino torbido, puzzolente o sbilanciato può non avere nulla di artigianale.
La regola d’oro?
Naturale non significa buono. Ma quando è buono ed è anche naturale, allora sì, è qualcosa di speciale. È un vino che vibra, che racconta una storia, che cambia nel bicchiere e nel tempo.
Il punto non è berlo per moda, o per sentirsi più “consapevoli”. Il punto è sceglierlo, capirlo, ascoltarlo. E, quando ne trovi uno che ti emoziona, tenertelo stretto.
Se ti sei perso l’episodio precedente sul tappo a vite (e perché non è da sfigati), recuperalo subito — e poi tuffati nel prossimo: La barrique non è il male (dipende da chi la usa)!